I lunedì erano sempre penosi per Romolo. Che la “Magica” avesse vinto o perso, al rientro in fabbrica, doveva subire i commenti dei colleghi per i segni che immancabilmente portava sul volto: lividi, ferite e fasciature.
Romolo era un Ultrà!
Puntualmente onorava la sua fede calcistica partecipando almeno a una scazzottata o a una rissa prima, dopo o durante l’incontro. La partita non era l’evento clou della giornata ma solo il pretesto per legittimare l’esistenza del popolo della curva, con i suoi ideali, sentimenti, drammi, gioie e frustrazioni. I compagni della curva rappresentavano un mondo a parte, un microcosmo di cameratismo, amicizia e ribellione. La vera caratura di un Ultrà era il coraggio e lo si misurava durante gli scontri con i reparti di Polizia e Carabinieri schierati in tenuta antisommossa. Solo i più temerari osavano sfidare le barriere trasparenti di scudi, incuranti delle manganellate e degli occhi arroventati dai lacrimogeni. Romolo era uno di quelli, un irriducibile, uno che alla battaglia non si sottraeva mai. La sera, dopo il lavoro, partecipava alle riunioni in borgata nella sede dei “Leoni della Sud”, una confraternita storica del tifo della Capitale. I compagni della curva lo ammiravano perché, a dispetto del fisico minuto e del carattere mite, partecipava sempre agli scontri con determinazione e coraggio pur essendo destinato, il più delle volte, a soccombere nel corpo a corpo con avversari più grossi e determinati di lui. In virtù di questa filosofia di vita il lunedì, immancabilmente, si presentava al lavoro con i lineamenti del viso alterati, dando adito ai colleghi, sconcertati da tanto accanimento, di farne oggetto di scherno. Il primo a tributargli un arguto commento, anche quel lunedì, fu Leopoldo, guardia giurata di presidio all’ingresso della fabbrica;
– A Romolè, stà vorta hai cercato de sfondà un tir co’ ‘a capoccia? Ma nun ce lo sai che i piccoletti come te devono stà attenti quando attraverseno ‘a strada?
Leopoldo, per rendersi più simpatico, soleva accompagnare le parole con un fastidioso scapaccione dritto sulla nuca del malcapitato. Più tardi venne il turno dei colleghi di reparto ognuno secondo le sue peculiarità caratteriali. Il paternalistico, cercava di dissuaderlo dal continuare a frequentare certe amicizie e certi ambienti, l’ironico ogni lunedì fingeva di non riconoscerlo per via delle ferite sul volto, l’arrogante lo insultava apertamente dandogli dell’idiota per quella che, ai suoi occhi, era un’evidente dimostrazione di stupidità, cioè farsi periodicamente picchiare da bestioni più grossi e cattivi. Romolo non reagiva rimaneva indifferente a ogni provocazione. Solo il rispetto e la considerazione dei fratelli della Curva Sud gli importava, la famiglia a cui era fiero di appartenere. Il lavoro in fabbrica scorreva monotono giorno dopo giorno. Da molti mesi lo Stabilimento lavorava a singhiozzo, due o tre giorni a settimana, e la tensione tra le maestranze cresceva di pari passo con le indiscrezioni relativamente a ordini cancellati, crisi imminente e posti di lavoro a rischio. Romolo non se ne curava perché nonostante l’aumento delle ore di cassa integrazione riusciva a guadagnare abbastanza per pagarsi le trasferte e se fosse stato necessario, avrebbe fatto delle rinunce. Sul lavoro era preciso e obbediente e i capi spesso lo usavano come jolly di linea per coprire le postazioni rimaste vuote senza preavviso. Romolo non protestava mai anche se di solito gli venivano riservate quelle più pesanti o meno gradite agli altri. Non di rado suscitava le proteste dei colleghi e i rimbrotti dei sindacalisti perché si ostinava a fare la produzione impostata e spesso a superarla. Chi te lo fa fare? Dicevano; pensi che l’Azienda ti pagherà di più per questo? Così metti in difficoltà gli altri compagni! Anche se spesso ‘gli altri compagni’ erano gli stessi che, d’accordo con i capi, gli riservavano le postazioni di lavoro peggiori. Quel lunedì i reparti dello Stabilimento erano in fermento, percorsi in lungo e in largo da gruppi di sindacalisti decisi ad azzerare il monte ore di permessi sindacali a disposizione. Si preparava, per il giorno seguente, una grande Assemblea e il Sindacato voleva garantirsi la massima adesione. In Assemblea si sarebbero decise le azioni di lotta da mettere in campo per stanare l’Azienda e farla pronunciare sulla reale entità della crisi e sulle prospettive occupazionali future. Il suono della sirena che annunciava la pausa mensa mise fine temporaneamente alle attività lavorative e a quelle sindacali. A differenza dei colleghi, Romolo, in sala mensa, non amava sedersi sempre con le stesse persone e spesso preferiva starsene per conto proprio. Quel giorno andò a sedersi verso il fondo della sala a pochi metri dal tavolo occupato dai responsabili di Reparto, capi, capetti e dal Direttore dello Stabilimento. Stava terminando il suo piatto di fettuccine al ragù quando in sala mensa fece il suo ingresso un drappello di sindacalisti per distribuire volantini. Ad ogni tavolo si fermavano per rispondere alle domande dei commensali e per ragguagliare gli operai circa le ragioni dell’assemblea e della mobilitazione del giorno dopo. Avvicinandosi al tavolo della Direzione il tono della voce cresceva provocatoriamente affinché il Direttore e il Capo del personale, intenti a mangiare, potessero sentire distintamente quello che stavano dicendo. Romolo in quel frangente fu l’unico a non allungare la mano per prendere il volantino che gli veniva offerto. In altre circostanze il gesto sarebbe passato inosservato ma per la particolare sistemazione logistica del tavolo la cosa attirò l’attenzione del Sindacalista più battagliero del gruppo. Si avvicinò al giovane con aria di sfida stando attento a mantenere le parole scandite e il volume alto;
– A te non te ‘nteressa lotta’ pe’ i diritti dei lavoratori?
– Stai a dì a me?
Chiese Romolo preso alla sprovvista;
– Si, proprio a te e a chi sennò? Sei capace solo de farti maciulla’ ‘a faccia pe’ tifa’ undici milionari ‘n mutande o te ‘nteressa anche lotta’ pe’ i tuoi diritti?
Sulle prime Romolo voleva lasciare perdere, come faceva di solito quando veniva provocato lontano dallo stadio, ma le parole del sindacalista le avevano sentite tutti nel refettorio e adesso se ne stavano zitti in attesa della sua risposta. Per la prima volta, pur restando fermo e impassibile, lo sguardo e il volto si trasfigurarono come gli accadeva prima di uno scontro allo stadio;
– Perché? Chi è che sta’ a lottà?
– Come chi? E noi chi semo? Il sindacato e tutti quelli che ce seguono stanno a lottà; pure pe’ quelli come te che se fanno solo li cazzi propri!
– A me nun me pare. Voi fate solo finta. Se volevate davvero lottà io me sarebbe messo ‘nprima fila co voi. A verità è che fate solo scena e stì fregnoni che ve stanno a sentì li pigliate solo pè culo!
– Ahò ma che stai a dì? Vuoi insegnà tu al Sindacato come se combatte? Sò anni che stamo a lottà pè i lavoratori mentre te sei capace solo de sbatterti in curva cò na massa de deficienti, fanatici.
Romolo represse l’istinto di saltargli al collo e invece sorrise sarcastico;
– Lo sai che c’hai proprio ragione? Io tutte e settimane vado allo stadio e faccio a botte, lotto, m’azzuffo, le piglio e le dò e nun me tiro mai indietro. Io ce credo nella curva, la ce stanno l’amici miei, semò fratelli de sangue. Io me farei ammazzà pe’ loro. E tu? Tu te faresti ammazzà pe l’operai tuoi?
Il Sindacalista non si aspettava quel genere di domanda e non seppe rispondere a tono;
– Che significa farse ammazzà? Il Sindacato ha sempre portato avanti ‘na battaglia ideale contro li padroni e a favore de lavoratori.
– A bello, ma a chi voi piglià pe’ culo? L’anni che i Sindacati se facevano il culo pè noi operai so passati. Mò siete solo capaci de magnà e farvi li cazzi vostri!
– Ma che stai a dì? Ma nun ce lo sai che se non era per il Sindacato oggi qua eravate già tutti a casa?
– Si, come no! A me però non m’hai risposto! Se tu nun sei diposto a morì pé l’ideale tuo allora nun c’hai possibilità de ottenè niente pè me e pè l’artri operai. In curva noi semo i padroni e tutti ce rispettano, pure i celerini, perché sanno che noi nun ce tiramo indietro, mai, manco se c’ammazzeno. Pure il Sindacato prima era così e i Padroni c’avevano paura, de perde li sordi ma pure la pelle, se si mettevano contro l’operai. Ora nun fate più paura a nessuno! Ve sedete al tavolo coi Padroni, fate ‘a ‘concertazione’ o come cazzo ‘a chiamate voi e quelli invece di cagasse sotto s’ammazzano dalle risate pè quanto l’operai so diventati cojoni.
– Ma che stai a di? A te le botte t’hanno fuso er cervello. Oggi er Sindacato se siede coi padroni e ce parla alla pari, faccia a faccia e quelli ce stanno a sentì!
– Nun è vero, siete voi che li state a sentì, perché ve conviene, perchè voi sindacalisti ce guadagnante. Acchiappate pè voi, v’arricchite, andate a ricoprì ‘ncarichi ‘mportanti, magari in Parlamento e al tavolo ve calate sempre le braghe. I Padroni a Voi ve lasciano decide solo come ce devono fottè, cò l’articolo diciotto o cò quello che cazzo gli pare!
Il Sindacalista, stanco del confronto con un soggetto così irragionevole, ritenne opportuno troncare la discussione rivolgendosi direttamente agli altri operai;
– Ecco, lo vedete? So quelli così che ci fanno perdere le battaglie, sono solo disfattisti! Statemi tutti a sentire, domani non mancate all’Assemblea. Serve essere uniti per costringere i padroni venire allo scoperto e dirci se questa fabbrica haun futuro o se dobbiamo iniziare la lotta.
E poi rivolto a Romolo:
– Te fai ‘npo’ come te pare, tanto er Sindacato lotterà pure pè te!
Detto questo il drappello di sindacalisti si allontanò restituendo il refettorio al suo abituale vociare indistinto. Dal tavolo della Direzione nessuno fino ad allora aveva parlato evitando ogni provocazione e solo quando i sindacalisti furono usciti dalla sala si sentì il commento di un solerte caporeparto;
– Ha visto Direttore? Ce ne vorrebbero di operai come quel Romolo li! Pensa solo alle partite, sgobba e sputa pure in faccia al sindacato..
Il direttore resto qualche attimo in silenzio osservando severo il caporeparto che aveva appena parlato. Poi, senza riuscire a trattenere l’irritazione che provava, sibilò:
– Stia zitto Bianchi, lei non ha capito proprio un accidente. Io, da giovane, ero a Torino negli anni in cui i Sindacati ci facevano vedere i sorci verdi. Per nostra fortuna operai come quel Romolo li ne sono rimasti pochi. Quello è uno degli ultimi a pensarla così, a capire cioè che il sindacato ottiene risultati solo con la lotta radicale, sennò fa solo il nostro gioco. Se le maestranze fossero tutti come quello li e i sindacati si comportassero come dice lui per noi sarebbero cazzi amari. Io a differenza sua “un Sindacalista Ultrà” proprio non me lo auguro. Ci rifletta Bianchi, ci rifletta! E adesso tornate tutti al lavoro, io e il qui presente Capo del Personale dobbiamo istruire quel gruppetto di giovanotti appena usciti, sennò domani all’assemblea, chissà che fesserie sarebbero capaci di dire. Buongiorno a tutti!